Trasgressione a S.Vittore: il mio nome, il mio progetto

A S.Vittore ci sono finito, da ospite, per cose mie. Era un po’ che volevo vedere da dentro questo posto, dopo essermelo fatto raccontare, dopo averlo visto ovunque via web ed essermelo immaginato, l’ho visto da dentro.

Gabbia

Gabbia

L’incontro era organizzato dal gruppo della Trasgressione ed aveva come titolo “Il mio nome, il mio progetto”.
Ecco cosa mi è passato nella testa.

Perduta. Questa gente è perduta, ma dall’inizio alla fine? Qua dicono solo dall’inizio, certo è che mica si può prendere sempre schiaffi per capire le cose, no? Vero è che tu parli con la bocca piena. Sei nato coperto dall’amore, ma se così non fosse stato, cosa saresti?
Qua le ragioni che danno sono molteplici: la droga, i furti, ma alla fine cos’è tutto se non la ricerca della felicità?
Li senti parlare e son tutti uomini, mica criminali, gente che è inciampata e che però tutto pare, tranne che qualcuno senza dignità.
La vita alla fine, ma forse soprattutto all’inizio, è un casino.
Con questa storia del carcere ho scoperto, leggendo alcuni trattati di psicologia, che se un bambino rimane senza mamma i primi anni della sua vita, corre il rischio di avere problemi motori. Fai fatica a muoverti se tua madre non si è occupata di te.
Dov’è allora questa madre? Non si sa, non lo puoi chiedere a ciascuna di queste persone, così stai lì, li senti parlare e per poco, anche solo un attimo, dici “E se ci fossi io lì?”. Intendo ad ammettere di fronte a tutti che hai buttato via la vita, perché eri drogato, perché hai fatto una rapina e perché, sfiga vuole, c’è scappato il morto. Una cosa che si spiega in un attimo, che però può mandare a puttane tutto.
Tutti loro lavorano per far funzionare le cose, o se queste son rotte per sempre, fare in modo che altri non le sputtanino a loro volta.
E così si appellano, alle autorità (presenti per fare bella figura all’inizio e poi fuggite prima che il primo detenuto parli), allo stato, a qualcuno che dia un appiglio per non dire che siamo soli.
Che è un po’ a pensarci quello che si prova, in maniera subconscia, quando si è neonati.
Dove siete?
E si piange.
Io ho bisogno di mangiare!
E si piange.
Attendendo soprattutto la risposta. Che sarà un abbraccio, una carezza, un seno da succhiare.
Solo che se questo non arriva, se questo segnale non c’è, credo d’aver capito che è l’inizio del disastro.
Te lo ricordi quando urlavi per fame da latte? No, è impossibile. Eppure… Eppure se qualcuno non ti ha carezzato, se nessuno ti ha allattato, se nessuno ti ha curato, anche se non lo ricordi avrai sempre sulle spalle la solitudine.